Troppi tragici casi di cronaca di morti annunciate, pirati della strada che uccidono impunemente cittadini innocenti. Io odio la “cultura” del pirata della strada, tanti incidenti che strappano vite non sono una semplice fatalità.
È il sintomo drammatico di una patologia sociale profonda, un fallimento collettivo che merita un'analisi che vada oltre la colpa penale del singolo.
Una cultura 'della libertà' che annulla la realtà umana dell’altro da sé. La 'libertà' di comportarsi in modo socialmente pericoloso non è libertà, è disturbo mentale.
Guidare sotto l'effetto di alcol e droghe o a velocità pericolose non è un atto di libertà, ma l'espressione di un egoismo patologico. È l'incarnazione di una mentalità che:
1) Minimizza il rischio ("A me non capiterà mai", "So controllare la situazione");
2) Annulla l'altro, poiché gli altri utenti della strada (pedoni, ciclisti, altri automobilisti) cessano di essere persone con vite, famiglie e sogni, diventando semplicemente ostacoli o comparse nel proprio percorso;
3) Cerca gratificazione immediata: La sbornia, lo sballo, l'adrenalina della velocità prevalgono sul principio di realtà e sulla responsabilità verso la collettività.
Questa non è libertà, ma schiavitù dall'impulso. La libertà è quella che si esercita nel rispetto dei limiti, che non sono una gabbia, ma il presupposto per una convivenza sicura e civile.
Il limite di 50 (30) km/h non è un numero arbitrario, ma un calcolo scientifico che salva le vite, garantendo lo "spazio di fuga" di fronte all'imprevisto.
Il problema non è solo individuale, ma sociologico e urbanistico. Le nostre città non sono a misura di persone, sono a misura di auto. Questo modello:
1) Legittima la velocità: Strade larghe, svincoli e bretelle sono progettati per il flusso veloce dei veicoli, inviando un messaggio subliminale che la velocità è non solo accettabile, ma desiderabile;
2) Emargina i vulnerabili: Pedoni e ciclisti diventano "fastidiose utenze da sopportare", costretti a un'incessante guerriglia per ritagliarsi uno spazio sicuro;
3) Alimenta l'isolamento: Una città dominata dalle auto scoraggia la vita di quartiere, i commerci di prossimità e gli incontri casuali, atomizzando la comunità.
La proposta di città a misura di bambini, pedoni, ciclisti, anziani e portatori di handicap non è un'utopia. È il progetto di una società che mette al centro la vita umana. Una città dove si cammina sicuri, si pedala tranquilli e si usano i trasporti pubblici efficienti è una città che educa alla pazienza, alla condivisione dello spazio e al rispetto per il prossimo.
Rallentare il traffico non significa perdere tempo, ma guadagnare in qualità della vita, relazioni sociali e, in definitiva, umanità.
Semplificando, esistono due visioni, in conflitto tra loro:
1) Una visione legalista e punitiva: "Chi sbaglia deve pagare. Sempre." "Nessuna pietà per lui."
2) Una visione civica e preventiva: "Applicando il codice della strada in maniera attenta da subito." "Chiamasi civismo, cosa che sembra mancarci sempre più."
L'educazione civica deve fondere queste due dimensioni. La sanzione (la galera, la sospensione della patente) è necessaria come deterrente e come giustizia per le vittime.
Ma da sola non basta. Serve un cambio di paradigma culturale che trasformi il rispetto delle regole da un obbligo esterno a un valore interiorizzato.
Questo significa:
1) Educazione precoce e continua: Insegnare la sicurezza stradale non solo per prendere la patente, ma fin dalle scuole elementari, come materia trasversale di cittadinanza;
2) Tolleranza zero per alcol e droghe alla guida: Non ci sono "attenuanti" o "giustificazioni". Deve diventare un tabù sociale, come guidare senza cintura;
3) Responsabilizzazione dei genitori: Dare un SUV potente a un neopatentato, è un atto di irresponsabilità. La guida è un privilegio che va concesso con gradualità e consapevolezza;
4) Rispetto reciproco: il "civismo" è anche reagire, sensibilizzando. Dobbiamo ricostruire un senso di comunità in cui ci si prende cura gli uni degli altri. Occorre ogni giorno onorare la Memoria con un cambiamento reale. Chi perde la vita sulla strada è il simbolo di un patto sociale violato. Onorare la loro memoria non significa solo chiedere pene esemplari per chi ha sbagliato, ma assumersi una responsabilità collettiva.
Possiamo e dobbiamo costruire una società in cui la strada non sia un campo di battaglia dove vince il più forte o il più spericolato, ma uno spazio condiviso, dove la "libertà" di ciascuno finisce dove inizia il diritto alla vita dell'altro. Rallentare non è solo una questione di limiti di velocità, ma un atto di civiltà, un riconoscimento concreto del valore della persona che abbiamo di fronte, anche se sconosciuta. È la scelta di una società che preferisce la vita all'egoismo, la comunità all'individualismo sfrenato.
(A. Battantier, Memorie di un amore, Mip Lab, Per Mattia, 2/10/2025) ❤️

Aucun commentaire:
Enregistrer un commentaire
Remarque : Seul un membre de ce blog est autorisé à enregistrer un commentaire.